La delocalizzazione di attività all’estero possono spesso condurre alla cessazione della società che opera in Italia che finisce per estinguersi con la conseguente cancellazione dal Registro delle imprese.
La cancellazione dal Registro delle imprese deve essere valutata con molta attenzione
- quando si è in presenza di debiti tributari non ancora saldati,
- quando, ad esempio, la società abbia ricevuto un avviso di accertamento divenuto definitivo
- quando pende ancora un giudizio tributario.
Infatti l’art. 28, comma 4, del D.lgs. n. 175/2014, in vigore dal 23 dicembre 2014, ha mutato la normativa sulla l’estinzione della societa’ di cui all’articolo 2495 del codice civile che non produce più effetti immediati ai fini tributari, ma, ai soli fini della validita’ e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese.
Prima dell’introduzione dell’art. 28, comma 4, del D.lgs. n. 175/2014 l’estinzione delle società veniva sostanzialmente regolata dall’articolo 2495 del codice civile, comma 2, c.c., divenuto, a seguito delle modifiche introdotte con D.L. n. 76/2020, conv. con Legge n. 120/2020, articolo 2495 comma 3, c.c., che stabilisce: “Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi”.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza 12 marzo 2013, n. 6070, ha chiarito che con la cancellazione della società dal Registro delle imprese essa deve ritenersi estinta a tutti gli effetti, con la conseguenza del venir meno di tutti i rapporti giuridici in capo alla stessa.
Nello specifico la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza 12 marzo 2013, n. 6070 si è così espressa:
“Con le sentenze nn. 4060, 4061 e 4062 del 2010 le sezioni unite di questa corte hanno ravvisato nelle modifiche apportate dal legislatore al testo dell’art. 2495 c.c. (rispetto alla formulazione del precedente art. 2456, che disciplinava la medesima materia) una valenza innovativa. Pertanto, la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese, che nel precedente regime normativo si riteneva non valesse a provocare l’estinzione dell’ente, qualora non tutti i rapporti giuridici ad esso facenti capo fossero stati definiti, è ora invece da considerarsi senz’altro produttiva di quell’effetto estintivo: effetto destinato ad operare in coincidenza con la cancellazione, se questa abbia avuto luogo in epoca successiva al 1 gennaio 2004, data di entrata in vigore della citata riforma, o a partire da quella data se si tratti di cancellazione intervenuta in un momento precedente. Per ragioni di ordine sistematico, desunte anche dal disposto del novellato art. 10 della legge fallimentare, la stessa regola è apparsa applicabile anche alla cancellazione volontaria delle società di persone dal registro, quantunque tali società non siano direttamente interessate dalla nuova disposizione del menzionato art. 2495 e sia rimasto per loro in vigore l’invariato disposto dell’art. 2312 (integrato, per le società in accomandita semplice, dal successivo art. 2324). La situazione delle società di persone si differenzia da quella delle società di capitali, a tal riguardo, solo in quanto l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto che le cancella ha valore di pubblicità meramente dichiarativa, superabile con prova contraria.”
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza 12 marzo 2013, n. 6070 si è anche espressa nel senso che:
“Il legislatore del codice civile, anche in occasione della già ricordata riforma del diritto societario, si è preoccupato espressamente soltanto di disciplinare la sorte dei debiti sociali rimasti insoddisfatti
dopo la cancellazione della società dal registro.
Il citato art. 2495, comma 2, (riprendendo, peraltro, quanto già stabiliva in proposito il previgente art. 2456, comma 2) stabilisce, a tal riguardo, che i creditori possono agire nei confronti dei soci della dissolta società di capitali sino alla concorrenza di quanto questi ultimi abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. E’ prevista, inoltre, anche la possibilità di agire (deve intendersi, però, per risarcimento dei danni) nei confronti del liquidatore, se il mancato pagamento del debito sociale è dipeso da colpa di costui.”
“………. quando il debitore è un ente collettivo, non v’è ragione per ritenere che la sua estinzione ……… non dia ugualmente luogo ad un fenomeno di tipo successorio, sia pure sui generis, che coinvolge i soci ed è variamente disciplinato dalla legge a seconda del diverso regime di responsabilità da cui, pendente societate, erano caratterizzati i pregressi rapporti sociali.
Nessun ingiustificato pregiudizio viene arrecato alle ragioni dei creditori, del resto, per il fatto che i soci di società di capitali rispondono solo nei limiti dell’attivo loro distribuito all’esito della
liquidazione. Infatti, se la società è stata cancellata senza distribuzione di attivo, ciò evidentemente vuoi dire che vi sarebbe stata comunque incapienza del patrimonio sociale rispetto ai crediti da soddisfare. D’altro canto, alla tesi – pure in sè certamente plausibile – che limita il descritto meccanismo successorio all’ipotesi in cui i soci di società di capitali (o il socio accomandante della società in accomandita semplice) abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione, ravvisandovi una condizione da cui dipenderebbe la possibilità di proseguire nei confronti di detti soci l’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società (tesi propugnata da Cass. 16 maggio 2012, nn. 7676 e 7679, nonchè da Cass. 9 novembre 2012, n. 19453), sembra da preferire quella che individua invece sempre nei soci coloro che son destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito della liquidazione (anche, come si dirà, ai fini processuali), fermo però restando il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità cui s’è fatto cenno.”
L’estinzione della società con la conseguenza del venir meno di tutti i rapporti giuridici in capo alla stessa determina, quindi, un fenomeno successorio di tali rapporti giuridici, secondo cui le obbligazioni, ivi incluse quelle tributarie, si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono a seconda del regime di responsabilità a cui erano sottoposti quando la società non era ancora estinta
- nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione nel caso di società di capitali
- illimitatamente nel caso di società di persone.
Tutto questo per i debiti “non tributari” , invece ai “fini tributari” nonostante la cancellazione della società, con l’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 28, comma 4, del D.lgs. n. 175/2014, l’estinzione di questa resta sospesa per 5 anni.
Quindi, fino a 5 anni dopo la cancellazione della società, l’Agenzia delle Entrate può proseguire le proprie azioni per il recupero dei tributi e dei contributi, nonché delle sanzioni e degli interessi, indirizzando nei suoi confronti:
- atti di liquidazione;
- avvisi accertamento;
- provvedimenti di riscossione;
- atti di contenzioso.
Come evidenziato in precedenza, dopo la cancellazione della società dal Registro delle imprese, ai fini civilistici questa si estingue ed essendosi già svuotata del proprio patrimonio il Fisco incontrerà difficoltà a soddisfare le proprie pretese.
A questo punto
- soci
- amministratori
- liquidatori
potrebbero essere coinvolti e danneggiati dalle azioni infruttuose compiute dal Fisco contro la società oramai estinta e rimasta inerte.
In merito a questi soggetti l’art. 36 (Responsabilita’ ed obblighi degli amministratori, dei liquidatori e dei soci) del D.P.R. n. 602/1973 stabilisce:
“I liquidatori dei soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche che non adempiono all’obbligo di pagare, con le attivita’ della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori rispondono in proprio del pagamento delle imposte se non provano di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari. Tale responsabilita’ e’ commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti.
La disposizione contenuta nel precedente comma si applica agli amministratori in carica all’atto dello scioglimento della societa’ o dell’ente se non si sia provveduto alla nomina dei liquidatori.
I soci o associati, che hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dai soggetti di cui al primo comma nei limiti del valore dei beni stessi, salvo le maggiori responsabilita’ stabilite dal codice civile. Il valore del denaro e dei beni sociali ricevuti in assegnazione si presume proporzionalmente equivalente alla quota di capitale detenuta dal socio od associato, salva la prova contraria.
Le responsabilita’ previste dai commi precedenti sono estese agli amministratori che hanno compiuto nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione operazioni di liquidazione ovvero hanno occultato attivita’ sociali anche mediante omissioni nelle scritture contabili.
La responsabilita’ di cui ai commi precedenti e’ accertata dall’ufficio delle imposte con atto motivato da notificare ai sensi dell’art. 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600.
Avverso l’atto di accertamento e’ ammesso ricorso secondo le disposizioni relative al contenzioso tributario di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 636. Si applica il primo comma dell’articolo 39.”
Quindi in base all’art. 36 (Responsabilita’ ed obblighi degli amministratori, dei liquidatori e dei soci) del D.P.R. n. 602/1973:
- i liquidatori rispondono in proprio delle imposte non pagate dalla società per il periodo di liquidazione e anteriore, se non provano di aver soddisfatto prima i crediti tributari (Tale responsabilita’ e’ commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti);
- i soci che negli ultimi 2 anni d’imposta precedenti alla messa in liquidazione hanno ricevuto denaro o altri beni sono responsabili per il pagamento delle imposte dovute dalla società nei limiti degli stessi beni;
- gli amministratori sono passibili delle predette responsabilità se negli ultimi 2 anni d’imposta precedenti alla messa in liquidazione hanno compiuto operazioni di liquidazione oppure hanno occultato attività sociali anche attraverso omissioni nelle scritture contabili (inoltre assumono le medesime responsabilità dei liquidatori se si è proceduto allo scioglimento della società senza la nomina dei liquidatori).
Ad esempio nell’ipotesi di notifica di un avviso di accertamento, molto probabilmente la società, non avendo più un patrimonio da perdere, potrebbe non avere un interesse diretto a difendersi, ma, per quanto suddetto, liquidatori, soci ed amministratori potrebbero subire delle conseguenze negative dalla mancata difesa della società contro gli atti del Fisco, visto che l’Agenzia delle Entrate, una volta verificata l’infruttuosità dell’azione contro la società, potrebbe proseguire l’azione contro i liquidatori, i soci e gli amministratori.
Quindi liquidatori, soci ed amministratori non dovrebbero disinteressarsi delle vicende che riguardano la società estinta, potendo essere subito dopo chiamati a rispondere dei fatti dalla stessa compiuti.
Quindi il fatto che legittimata a difendersi dalle azioni del Fisco, entro i 5 anni dalla sua cancellazione, è, principalmente, la società estinta, non esclude che soci, liquidatori e amministratori, pur non essendo stati ancora destinatari di atti tributari, ma che potrebbero subire un danno dall’inerzia della società, avendone tutto l’interesse, possono essere ritenuti legittimati a difendersi in base
- all’ Articolo 100 Codice di procedura civile (Interesse ad agire) che recita: “Per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse” (La dottrina prevalente definisce l’interesse ad agire quale interesse al conseguimento di un’utilità o di un vantaggio non ottenibile senza l’intervento del giudice. L’interesse deve essere personale, nel senso che il risultato vantaggioso deve riguardare direttamente il soggetto che agisce, attuale, nel senso che deve sussistere al momento in cui si propone la domanda, ed infine, concreto, ovvero deve essere valutato con riferimento ad un pregiudizio concretamente verificatosi ai danni del soggetto che esercita l’azione.)
- in virtù del loro diritto alla difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24 della Costituzione il cui primo comma recita.”Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”.
La Corte di Cassazione con l’Ordinanza 5 novembre 2021, n. 31904 pone in evidenza che : “Nella sostanza, dunque, in caso di estinzione della società, i soci subentrano, con dette limitazioni, nel medesimo debito della società stessa, debito che – lo si ripete – conserva “intatta la propria causa e la propria originaria natura
giuridica“.
L’Ordinanza 5 novembre 2021, n. 31904 prosegue:”mentre il socio subentra nello stesso debito della società ex art. 2495, comma 2, c.c., e risponde in proporzione alla quota sociale posseduta (in caso di s.r.I.) e nei limiti di quanto ricevuto, l’obbligazione del liquidatore in discorso non ha limitazioni e origina un debito di natura diversa, che col primo concorre in ottica satisfattiva delle ragioni creditorie”.
“…., osserva la Corte che le obbligazioni di cui all’art. 36 del d.P.R. n.
602/1973 sono affatto diverse da quelle della società per imposte non versate, che ne costituiscono il presupposto: in altre parole, la responsabilità del liquidatore, dell’amministratore o del socio, regolata dall’art. 36 cit., consegue all’esistenza di una o più obbligazioni sociali tributarie rimaste inadempiute sul
piano fisiologico, e ad essa si affianca, quanto ai soci specialmente, in ottica di recupero e di garanzia (lato sensu intesa) in favore del fisco. Detta responsabilità, dunque, sorge ex lege, alla sussistenza dei presupposti di cui allo stesso art. 36, ossia, riguardo agli stessi soci, l’aver essi percepito, nel
corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione, danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o l’aver avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, e nei limiti del valore dei beni stessi, fatte salve le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile.
Così come per i liquidatori e gli amministratori (su cui si vedano Cass. n. 11968/2012; Cass. n. 8701/2014; Cass. n. 17020/2019; Cass. n. 29969/2019), dunque, non è revocabile in dubbio come anche l’obbligazione del socio, ex art. 36, comma 3, d.P.R. n. 602/1973 abbia natura civilistica e non tributaria, oltre che sussidiaria, “non ponendo la norma alcuna successione
o coobbligazione nei debiti tributari a carico di tali soggetti” (così,
espressamente, Cass. n. 7327/2012); ciò giustifica, a ben vedere, non solo la previsione dì cui al comma 5, circa la necessità di emissione di autonomo avviso di accertamento, ma anche quella di cui al comma 6, circa l’impugnabilità di detto avviso in sede tributaria (previsione altrimenti pleonastica). Ne discende, in definitiva, quanto al socio “successore”, che almeno nel sistema antecedente al d.lgs. n. 175/2014, altro è la responsabilità
ex art. 2495, comma 2, c.c., altra cosa è quella ex art. 36, comma 3, cit.”
“…. in particolare, di Cass. n. 4699/2014, così massimata: “L’art. 2495 cod. civ. (…) prevede che i crediti verso la società cancellata diventano esercitabili dapprima nei confronti dei soci, nei limiti delle
somme riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e poi, in caso di mancato pagamento per loro colpa, nei confronti dei liquidatori, stabilendo, non è nella specie, v. par. 3.1), ove il contribuente ne sia a conoscenza o l’abbia addirittura impugnato (Cass. n. 21177/2014). ”
Quindi con l’Ordinanza 5 novembre 2021, n. 31904 , la Corte di Cassazione ha ritenuto che, il socio succede nei rapporti processuali e sostanziali della società, a prescindere dall’avvenuta distribuzione dell’utile o di altri beni nell’ambito della procedura di liquidazione della società.
La Suprema Corte osserva come la sussistenza dell’interesse ad agire del Fisco non può valutarsi in forza di una prospettiva meramente statica e la responsabilità del socio non può escludersi sulla sola base di quanto emergente dal bilancio di liquidazione né dalla mera circostanza che egli non abbia partecipato utilmente alla ripartizione finale, potendo ad esempio, sussistere beni e diritti che, sebbene non ricompresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, siano stati comunque trasferiti ai soci (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, n. 619/2021).
L’Amministrazione finanziaria può rivolgersi al socio successore per il recupero del credito vantato contro la società estinta, dimostrando la fonte di detta obbligazione, seppur ripartita pro quota.
Il subentro del socio nell’obbligazione sociale avviene per legge, a prescindere dal fatto che il Fisco dimostri la circostanza che il socio abbia utilmente partecipato alla distribuzione di utili.
Di contro, la negazione da parte del socio circa la percezione di utili, costituisce un fatto modificativo, impeditivo o estintivo della pretesa del Fiso, ossia come eccezione di merito, di cui deve fornirne adeguata prova, avendo la Corte di Cassazione con Sentenza a Sezioni Unite n. 6071 del 12 marzo 2013 ) ritenuto che resta fermo per i soci successori il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità: “Come, nel caso della persona fisica, la scomparsa del debitore non estingue il debito, ma innesca un meccanismo successorio nell’ambito del quale le ragioni del creditore sono destinate ad essere variamente contemperate con quelle degli eredi, così, quando il debitore è un ente collettivo, non v’è ragione per ritenere che la sua estinzione (alla quale, a differenza della morte della persona fisica, concorre di regola la sua stessa volontà) non dia ugualmente luogo ad un fenomeno di tipo successorio, sia pure sui generis, che coinvolge i soci ed è variamente disciplinato dalla legge a seconda del diverso regime di responsabilità da cui, pendente societate, erano caratterizzati i pregressi rapporti sociali.
Nessun ingiustificato pregiudizio viene arrecato alle ragioni dei creditori, del resto, per il fatto che i soci di società di capitali rispondono solo nei limiti dell’attivo loro distribuito all’esito della liquidazione. Infatti, se la
società è stata cancellata senza distribuzione di attivo, ciò evidentemente vuol dire che vi sarebbe stata comunque incapienza del patrimonio sociale rispetto ai crediti da soddisfare. D’altro canto, alla tesi – pure in
sé certamente plausibile – che limita il descritto meccanismo successorio all’ipotesi in cui i soci di società di capitali (o il socio accomandante della società in accomandita semplice) abbiano goduto di un qualche
riparto in base al bilancio finale di liquidazione, ravvisandovi una condizione da cui dipenderebbe la possibilità di proseguire nei confronti di detti soci l’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale
verso la società (tesi propugnata da Cass. 16 maggio 2012, n. 7676 e Cass. n. 7679/2012, nonché da Cass. 9 novembre 2012, n. 19453), sembra da preferire quella che individua invece sempre nei soci coloro che son destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata ma non definiti all’esito della liquidazione (anche, come si dirà, ai fini processuali), fermo però restando il loro diritto di opporre ai
creditore agente il limite di responsabilità cui s’è fatto cenno.”
Il socio/contribuente ha l’onere di avviare il processo tributario in quanto l’emissione di un avviso di accertamento, l’iscrizione a ruolo o la notifica della cartella di pagamento nei confronti del socio prescindono del tutto da ogni accertamento sulla avvenuta (o mancata) percezione degli utili.
Spetta al socio dimostrare la propria assenza di responsabilità, il non essere tenuto a rispondere di quel debito sociale, offrendo la relativa prova
- dimostrando l’inesistenza originaria o sopravvenuta del titolo formatosi nei confronti della società,
- o con la dimostrazione di non aver conseguito utili dalla liquidazione.
La Corte di Cassazione con Ordinanza 20 ottobre 2021, n. 2911 si è pronunciata sulla possibilità che le sanzioni comminate nei confronti di una società cancellata dal Registro delle imprese possano essere recuperate dall’Agenzia delle Entrate nei confronti dei soci, ritenendo che, a seguito della accertata estinzione della società debitrice principale, le sanzioni amministrative a carico di quest’ultima per la violazione di norme tributarie non si trasmettono ai soci nè al liquidatore, trovando applicazione l’art. 8 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 che sancisce l’Intrasmissibilta’ della sanzione agli eredi in accordo con il principio della responsabilità personale, di cui al comma 2 dell’art. 2 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (La sanzione e’ riferibile alla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione).
L’art. 7, comma 1, del D.L. n. 269 del 2003, (convertito con modificazioni in Legge n. 326/2003) ha introdotto la regola della riferibilità esclusiva alle persone giuridiche delle sanzioni amministrative tributarie (Le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di societa’ o enti con personalita’ giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica).
Nel medesimo senso si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9094 del 7 aprile 2017.
Agli effetti dell’estinzione delle società vi è la possibilità che il perfezionamento di un reato in capo alla società oramai estinta potrebbe dare luogo ad un raddoppio dei termini per l’accertamento fiscale.
Con l’espressione “raddoppio dei termini” si intende l’istituto in forza del quale, in presenza di una violazione fiscale che imponga l’obbligo di denuncia per un reato tributario, i termini dell’accertamento tributario vengono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione.
L’istituto del raddoppio dei termini fu introdotto con l’art. 37, commi 24 e 25, del D.L. n. 223/2006.
L’evoluzione normativa dell’istituto, costantemente accompagnata da interventi della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, oltre che da numerose pronunce di merito, ha trovato la sua ultima cristallizzazione, dapprima, con il DECRETO LEGISLATIVO 5 agosto 2015, n. 128 (c.d. Decreto sulla certezza del diritto) che, con l’art. 2 (“Modifiche alla disciplina del raddoppio dei termini per l’accertamento”), commi 1 e 2, ha disposto la modifica e l’inserimento, negli artt. 43, c.3, del D.P.R. n. 600 del 1973, e 57, c. 3, del D.P.R. n. 633 del 1972, del seguente periodo: «Il raddoppio opera a condizione che la denuncia sia presentata o trasmessa entro la scadenza ordinaria dei termini»e, poi, con la LEGGE 28 dicembre 2015, n. 208 (c.d. “Legge di stabilità 2016”), art. 1, commi 130 e 131 che hanno sostituito gli artt. 43, del D.P.R. n. 600 del 1973, e 57 del D.P.R. n. 633 del 1972 apportando un’ulteriore radicale modifica
- con la soppressione testuale del raddoppio dei termini in presenza di violazioni penali tributarie
- con l’introduzione di nuovi e più ampi termini per la rettifica delle dichiarazioni sui redditi e sul valore aggiunto (da quattro a cinque anni, in caso di presentazione della dichiarazione, e, da cinque a sette anni, in caso di dichiarazione omessa).
l perfezionamento di un reato in capo alla società oramai estinta, che di per sé darebbe luogo ad un raddoppio dei termini per l’accertamento fiscale delle violazioni in capo alla società (ai sensi dell’art. 37, comma 24, del D.L. n. 223 del 2006), possa comportare l’ulteriore effetto del raddoppio dei termini per l’accertamento fiscale anche nei riguardi dei soci della società estinta.
La Corte di Cassazione con l’Ordinanza 22 ottobre 2021, n. 29548, è giunta a ritenere pienamente legittimo il raddoppio dei termini per la notifica dell’accertamento in esame nei confronti del socio della società estinta, atteso che il debito fiscale si era trasferito in capo a quest’ultimo in qualità di socio unico a causa della estinzione della società (cancellata dal registro delle imprese) e della liquidazione operata dal liquidatore in suo favore.
Sulla problematica la Suprema Corte ha, in primo luogo, chiarito che, dopo la riforma del diritto societario, attuata dal D.Lgs. n. 6 del 2003, qualora all’estinzione della società di persone o di capitali, conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale:
- l’obbligazione della società non si estingue, ciò che sacrificherebbe ingiustamente il diritto del creditore sociale, ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, “pendente societate”, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali;
- i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con esclusione delle mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo.